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LA SIGNORA DELLA PORTA ACCANTO
(LA FEMME D'À CÔTÉ)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 dicembre 1981
 
di François Truffaut, con Gérard Depardieu e Fanny Ardant (Francia, 1981)
 
Chi ha l'abitudine di arrivare al cinema con qualche minuto di ritardo dovrebbe ricredersi: è spesso nelle primissime battute di un film, talora addirittura nelle immagini che fanno da sfondo ai titoli di testa, che si nasconde il significato. In modo riassuntivo, ma in qualche caso più chiaro e conciso di tutto ciò che seguirà nel paio d'ore successive, il regista trasmette se non il messaggio, almeno le proprie intenzioni.

LA FEMME D'À CÔTÉ inizia ai bordi di alcuni campi di tennis con una donna, che dopo alcuni istanti scopriremo inferma ad una gamba, che si rivolge agli spettatori direttamente in prima persona. Racconterà per tutto il film la storia di una passione, quella che si vorrà divorante (e che purtroppo per la logica del film non lo è sempre) fra Depardieu e Fanny Ardant, ex amanti che si ritrovano ad abitare uno accanto all'altra, ma sposati a due persone diverse.

Il film è così scandito dalla parola: ed è una piccola deroga, ma non così importante ai fini di un esame delle intenzioni, a quella che è una delle passioni di Truffaut. La parola, ma scritta. Il testo letterario, sovente anche di valore non eccelso, al quale il regista di ADELE H o di FARENHEIT si attacca per farci partecipe della propria passione.

Il film appare quindi subito segnato da questa particolare struttura, e da un altro amore di Truffaut, quello per il cinema americano. Bastano alcune inquadrature (d'altronde alquanto seducenti) per confermarci tutto ciò: la prima apparizione della donna, di spalle mentre scende le scale, il tutto riflesso nell'emozione che d dipinge sui volto di Depardieu. E che irresistibilmente fa pensare a mille immagini del melodramma americano, da Sirk a Preminger. Oppure la precisione delle topografie, degli spazi, degli oggetti, il telefono, usato dai due vicini per comunicare la finestra, oggetto di voyeurismo, la giarrettiera che trattiene una calza di seta (credo succeda ormai soltanto al cinema) che riportano alla mente il cinema esemplarmente pensato di uno dei punti fermi di Truffaut, Alfred Hitchcock.

Se questi segni sembrano da un lato inserire coerentemente il film nei temi del regista, dall'altro ne denunciano anche i limiti e le debolezze. Truffaut e uno che, prima che ai linguaggi o alle teorie astratte, ha sempre pensato ai propri personaggi (il suo grande affetto per i propri attori, da Léaud a Deneuve o Adjani) ed allo sviluppo dei propri racconti. Qui si direbbe sedotto dalla ricerca di quelle atmosfere americaneggianti, fino a perdere di vista un Depardieu e una Fanny Ardant che finiscono con l'apparire scarsamente credibili. E così una storia, meglio una atmosfera che si perde per strada. Proprio perché sceglie la parola, con il suo rigore, per filo conduttore, Truffaut decide di parlarci di una storia di passione con freddezza e distacco, come in un trattato. La freddezza il distacco che sono quelli della donna, mutilata, castrata che racconta la vicenda: una donna che, delusa da una passione, si è autoesiliata, Le contraddizioni del film nascono proprlo da questa impossibilità: dl parlarci di passione, di farci credere in un finale passionale, illustrando in modo distaccato il racconto di una persona che fugge la passione. Si potrebbe obiettare che Bresson ci ha descritto passioni frementi con immagini di un distacco esemplare: e forse vero. Ma allora ci vuole un altro tipo di cinema: un cinema che non si conceda nessuna delle inesattezze (di sceneggiatura soprattutto) che marcano il cinema, sotto sotto emotivo e sentimentale di Truffaut. Rimangono scampoli di qualità: gli echi emozionanti di quel cinema americano, la diligenza sapiente nel costruire una geografia dei luoghi che si fa ben presto geografia dei sentimenti.


   Il film in Internet (Google)

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